Magic Valley

31/10/11 - L’opera prima di Jaffe Zin sceglie la strada del minimalismo per intrecciare le esistenze di un gruppo di personaggi nelle terre desolate dell’Idaho.

Dalla nostra inviata CATERINA GANGEMI

“Mi piace pensare al mio film come una fetta di vita prequel del capolavoro di Emmerich 2012“. Un paragone azzardato ma non troppo, quello scelto da Jaffe Zinn per descrivere il senso di catastrofe incombente sul suo debutto alla regia con Magic Valley: film che ripone nel suo private Idaho, quel quieto spazio interiore cantato dai B52’s e il disagio adolescenziale di Gus Van Sant, gli scheletri nascosti sotto la terra di una provincia desolata e immobile tra il Lynch di Twin Peaks e la perturbante ordinarietà degli short cuts altmaniani. Il racconto è frammentato ed ellittico, come un puzzle in cui le esistenze di un teen-ager tormentato, uno sceriffo fanfarone col mito di Chuck Norris, l’insolito passatempo di due bambini e una lite per questioni territoriali tra un allevatore di pesce e il suo vicino, si intrecciano nell’arco di una giornata, per ricomporsi al tramonto in un’immagine agghiacciante e sconvolgente.

Lineare, asciutta, la scrittura restituisce con immediatezza e precisione una quotidianità fatta di gesti ordinari, consuetudini apparentemente irrilevanti come fare la spesa al supermercato, mettere multe, giocare tra i campi, cogliendone il lato più oscuro e quella tensione sottesa, destinata a sfociare a poco a poco in tragedia. In un approccio registico minimale, funzionalmente contenuto entro i limiti di un budget irrisorio, la macchina da presa osserva ed esplora con piglio entomologico la noia, il vuoto camuffato da routine, l’alienazione di questa valle sulla cui magia aleggia il sarcasmo dell’antifrasi. Un distacco che, chiudendo ogni via d’accesso al patetico, ripone la componente emozionale nella fierezza lirica di paesaggi agresti e brulli, e nel tono tetro riposto nell’immagine ricorrente dei salmoni morti, simboli della putrefazione in atto, epifanie di morte dirompenti nella placidità dell’atmosfera. E allo spettatore, posto allo stesso modo di fronte all’evolversi degli eventi, non resta che assistere passivo allo sviluppo di una storia già compiuta e definita, alla quale non può prender parte se non nella pulsione dell’attesa.