Michael

15/05/11 - Un'opera prima raccapricciante sul tema della pedofilia che pur toccando un nervo scoperto, riesce solo ad assicurarsi i fischi della stampa.

Dalla nostra inviata Lia Colucci

Ascolta la conferenza stampa al Festival di Cannes del film:

  • Michael
  • Sugli schermi di Cannes 64 arriva il classico pugno nello stomaco del regista austriaco Markus Schleinzer, alla sua prima prova da cineasta ma già collaboratore di eminenti artisti del suo Paese come Michael Haneke e Jessica Howner. In Concorso, sulla Croisette, porta una sorta di agghiacciante realismo con il suo Michael: una storia di abusi che narra le vicende dell’omonimo protagonista, un trentacinquenne pedofilo (Michael Fuith), e del suo piccolo prigioniero Wolfang(David Rauchemberger ) di dieci anni. Ad accompagnare l’atroce vicenda, vista con occhio freddo ed impenetrabile, la luce livida della fotografia, i volti poco avvenenti dei personaggi, il montaggio secco e perentorio. Un uomo che si sente solo ha il diritto di prendersi un giocattolo di chiuderlo in casa, di approfittare delle sue fantasie, di violare ogni regola sociale? Ovviamente no, ma quello che il regista pare intenzionato a mostrarci è che anche i pedofili hanno dei sentimenti. In questa pellicola si arriva al paradosso in cui Michael vorrebbe trovare un amichetto per il piccolo, ma non ci riesce, ha già montato il letto a castello per fare di quella piccola abitazione in cantina una casetta per due. Eppure nel frattempo continua a condurre la sua vita di tutti i giorni con disinvoltura: va in ufficio fa l’assicuratore, ha una famiglia, degli amici, ma anche un cordone ombelicale nascosto che lo lega a Wolfang e alla stanza insonorizzata e inchiavardata a tripla mandata dove s’incontrano.

    Come possiamo vivere a contatto con degli esseri così inquietanti senza neanche riconoscerli, sembra suggerci il regista nei suoi lunghi silenzi, nelle pause interminabili che si susseguono nel film? Eppure è stato tutto già visto, anche se in maniera meno esplicita, la narrazione diventa affascinante quando utilizza anche la metafora, non solo quando sbatte il mostro in prima pagina come fa Schleinzer. Troppo facile un cinema del genere, diventa anche volgare e inutilmente provocatorio. Molto fischiato in sala dai giornalisti che per fortuna ancora non hanno perso il senso di quello che è fanatismo delle immagini e quello che è vera denuncia tramite esse.