Parola al Cinema

23/04/10 - Delle difficoltà di realizzazione de I gatti persiani, della sua natura “pionieristica”, per i suoi...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

I gatti persiani: quando il racconto non ricrea realtà, ma è dato dallo scontro con la realtà

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def23/04/10 – Delle difficoltà di realizzazione de I gatti persiani, della sua natura “pionieristica”, per i suoi contenuti e per le conseguenti complicazioni pratiche nelle riprese, si è già ampiamente sentito parlare. Opera nata e girata in un contesto di strettissime limitazioni imposte da un regime, quello iraniano, che non permette alcuna vera libertà d’espressione, e nata proprio per stigmatizzare tale prigionia culturale tramite la stessa realizzazione del film, I gatti persiani non può essere valutato, ovviamente, tramite consueti strumenti critici. La scelta delle riprese con telecamera digitale, ad esempio, non è stata una libera opzione espressiva dell’autore, Bahman Ghobadi, bensì una scelta vincolata dal fatto che in Iran l’uso del materiale a 35 mm può essere solo concesso dallo Stato. E se presso lo Stato non si hanno particolari simpatie, anzi si è rischiata la galera per le proprie idee, come nel caso di Ghobadi, i 35 mm diventano una chimera. Primo dato extradiegetico, dunque, che si trasforma in dato intradiegetico: Ghobadi narra una condizione culturale tramite una stessa scelta estetica obbligata. Nella qualità stessa delle immagini, che l’autore non ha potuto dominare come avrebbe voluto, è già compreso un elemento narrativo aggiuntivo alla pura storia narrata. Anzi, probabilmente senza tali strettoie realizzative si sarebbero persi anche lo spunto, l’ispirazione e la ragione fondante di tutta l’opera (se c’è libertà di pensiero e d’azione, perché raccontare della sua assenza tramite mezzi di fortuna?).

i gatti persianiSecondo dato narrativo: non si sa se nelle intenzioni di Ghobadi la scelta della “docufiction” è stata un’opzione stilistica a monte del progetto. Vero è che I gatti persiani, per ciò che racconta, ha potuto concretizzarsi solo in “docufiction”, visto che l’autore ha girato senza permessi, per soli 17 giorni, spostandosi furtivamente in moto con attori e collaboratori in mezzo a case e quartieri di Teheran. Terzo dato narrativo: la storia raccontata in sé per sé, che magari può suscitare qualche perplessità in merito al ripiegamento di una gioventù su modelli culturali non autoctoni (la musica rock in stile occidentale come elemento di rottura rispetto alle violente rigidità di un regime), ma che in una sociosfera così asfissiante appare testimonianza di una tendenza generazionale più che comprensibile. In mezzo a tante e tali difficoltà, e in mezzo a scelte estetico-narrative mai totalmente libere, resta ammirevole la capacità di Ghobadi di costruire una piacevole commedia drammatica, fuori dai consueti schemi narrativi iraniani che hanno fatto del loro “neorealismo” leccato, preordinato fino allo spasimo e talvolta manieristico un canone sempre più stancante ed estenuato. Nel tipo di narratività e nel metodo, se ci è concesso un paragone improprio, Ghobadi ricorda un’altra forma di neorealismo, quello di Rossellini che metteva in piedi storie di fiction ma in mezzo alle mille asperità delle Roma o Berlino postbelliche, scontrandosi giorno dopo giorno con limiti realizzativi sempre diversi.

Ma è anche un Iran che si guarda dall’esterno e si tiene a distanza, mostrando una notevole autocoscienza in una parte delle generazioni più giovani. Probabilmente, tra i dvd occidentali scaricati da Ghobadi c’è capitata anche qualche bella commedia britannica. Per il suo tono scanzonato e al contempo profondamente doloroso e consapevole, I gatti persiani ricorda la commedia di ambiente proletario alla Full Monty, in cui sopravvivenza non significa fare un po’ di soldi, ma tentare la fuga all’estero in cerca di più respirabili orizzonti. Insomma, se la telecamera digitale e la forzata rapidità di riprese conduce spesso la messinscena verso il dilettantismo, con tanto di riprese in controluce che sul grande schermo rischiano la cecità dello spettatore, è pur vero che Ghobadi mostra una buona consapevolezza narrativa. Alla resa dei conti, il suo film è anche molto didascalico, ma suo malgrado, poiché tutto si trasforma in didascalico se non c’è possibilità di narrare in libertà, e se in primis si racconta tale impossibilità al racconto. Tramite una precisa scelta di storia e personaggi fittizi, ma anche tramite le stesse strettoie tecnico-pratiche che un regime totalitario impone agli autori non allineati.