Parola al cinema

18/04/09 - Bisognerebbe conoscere a fondo il cinema africano, e nello specifico quello...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

Teza: racconti lontani, nello spazio e nel tempo

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def18/04/09 – Bisognerebbe conoscere a fondo il cinema africano, e nello specifico quello etiope, per essere in grado di farsi un`idea più chiara sul ruolo e il significato che un film come “Teza” ricopre nella storia e nello sviluppo del cinema autoctono. A un occhio occidentale, poco avvezzo a mezzi espressivi appartenenti ad altri mondi (anche molto pigro nel volerli conoscere), e soprattutto già  pienamente consapevole del mezzo-cinema tanto da potersi permettere etichette come postmoderno, “Teza” rischia di passare per un film narrativamente ingenuo, stilisticamente attardato, se non qua e là  risibile in certe sue svolte da fumettone melodrammatico e nel ricorso massiccio a strumenti largamente superati nel nostro cinema. La profusione degli zoom in chiave di enfasi narrativa, per intenderci, in Italia è scomparsa da almeno qualche decennio (e dico Italia, che pur tecnicamente non presenta certo una produzione cinematografica all`avanguardia), e siamo già  nella fase in cui l`autore se ne serve come gioco cinefilo, come fa ad esempio Pappi Corsicato ne “Il seme della discordia”. Ci si muove su territori anche “pericolosi” nell`ambito di un giudizio estetico, poichè dobbiamo sempre tener ben presente, come strumento di lettura, una costante relativizzazione culturale dei mezzi espressivi (stesso imbarazzo, del resto, che talvolta si prova davanti ai film di Bollywood). Probabilmente nel cinema etiope “Teza” costituisce una pietra miliare, se non altro per il suo impianto da kolossal storico documentale su 30 anni di storia nazionale. E altrettanto probabilmente è una pietra miliare per la relativa ampiezza di mezzi espressivi messi in gioco. E` inevitabile, però, anche non riuscire a trattenere qualche risata sulla ricostruzione della Colonia anni `70, raccontata con tutti i clichè più pacchiani della contestazione intellettual-marxista (qua e là , nel tratteggio di alcuni personaggi, nei loro stessi costumi e acconciature, sembra di assistere a un telefilm americano stile “Baretta” o “Blaxploitation”, e se a un certo punto fosse entrata in scena Pam Grier con il mitra spianato non ci sarebbe stato da sorprendersi).

Uno dei pregi maggiori di “Teza”, almeno in stretto ambito di scrittura cinematografica, è dunque testimoniale. Si pone, in questo senso, come una preziosa testimonianza di moduli narrativi lontani dai nostri, endemicamente diversi in quanto appartenenti ai ritmi e ai tempi di un`altra cultura. Due, a mio avviso, sono i dati di maggior rilevanza culturale in ambito narrativo: l`episodicità  e la mancanza di una necessità  di completezza. Il film si dispiega, infatti, seguendo una catena di episodi, spesso chiusi in sè e fuori da una logica narrativa “orizzontale”. Quantomeno nel ritorno a casa di Anberber, ogni sequenza fa storia a sè, componendo una serie di piccole novelle tenute insieme più sul piano tematico che su una necessità  di coerenza. Si avverte una logica “orizzontale” più sviluppata nella parte del film che narra il passato di Anberber, dagli anni `70 alla caduta del muro di Berlino, ma la divagazione e la digressione sono sempre all`ordine del giorno (basti pensare alle numerose parentesi di canto). E` sufficiente un esempio, invece, per la mancanza di completezza: sul finale il marito di Azanu si rifà  vivo minacciando di morte la donna che l`ha abbandonato. Anberber lo caccia, ma l`uomo se ne va reiterando più volte la sua minaccia. Poco dopo il film finisce. Uno sceneggiatore occidentale avrebbe avvertito immediatamente la necessità  di dare un seguito e una conclusione alla minaccia dell`uomo. Così come si sarebbe premurato di farci sapere come muore l`anziana madre di Anberber, o come si risolvono i rapporti tra lui e il fratello. E sicuramente ci avrebbe informato sulla successiva vita di Cassandra, personaggio che sparisce dalla narrazione sul finire degli anni `70. In “Teza”, al contrario, tutto questo non è avvertito come una necessità . “Si narra solo ciò che si narra” sembra dire Haile Gerima. In tal senso, più che d`ingenuità  o grossolanità  narrative, è più corretto forse parlare di sguardo puro, o semplicemente sguardo “altro”, che interroga poco se stesso e si preoccupa solo di raccontare una storia. “Teza” resta un film radicalmente didascalico, ma non cerca di non esserlo. A testimonianza, forse, che la categoria di didascalico/non didascalico non ha ancora raggiunto una sua marcatezza nel contesto del cinema etiope. E che quindi il racconto e il senso, la narrazione e il narrato costituiscono ancora un corpo unico e inscindibile.