RCL: fuga d’artista?

16/12/10 - Ridotte Capacità Lavorative: opera di temerario “Surrealismo civile” o “fuga d’artista”...

Ridotte Capacità Lavorative – Un’opera di temerario “Surrealismo civile” o l’opaca storia di una “fuga d’artista” di fronte alla complessità della vicenda sindacale a Pomigliano D’Arco?

16/12/10 – C’è, in RCL – Ridotte Capacità Lavorative, un episodio di esilarante comicità che si offre al contempo come rimando diretto alla vecchia querelle intorno al ruolo dell’intellettuale organico esplosa negli anni Sessanta e Settanta. Paolo Rossi, in una delle fasi di esaltazione che precedono i crolli emotivi, s’infervora, immaginando come unico elemento degno di essere narrato nel suo film quello della catena di montaggio fordiana, cui ancor oggi la classe operaia è sottoposta e che la gente non immagina cosa sia in concreto. Il progetto di focalizza dunque su una visione ininterrotta della catena di montaggio in sé: centottanta minuti di sequenze girate all’interno della fabbrica dove l’operaio Fiat, “come se percorresse una scala mobile al contrario”, si trova a ripetere coattamente l’identico, meccanico gesto. Ma di fronte al’idea dell’autore, ecco che un membro della troupe che lo accompagna nelle sue pellegrinazioni a Pomigliano gli lancia la risaputa obiezione: non è una crudeltà che un lavoratore, dopo otto ore di fabbrica, vada al cinema per sorbirsene altre tre? Il riferimento evidente è all’episodio reale accaduto una quarantina di anni fa al compositore Luigi Nono che, fedele all’idea gramsciana di egemonia culturale in cui l’artista diveniva propagatore dell’idea di lotta di classe, pensò bene di dare esecuzione della sua opera La fabbrica Illuminata in una sala gremita di operai. Al termine di quella che può essere considerata una sublime tortura sonora, un lavoratore si alzò in piedi e urlò: “Ma come, compagno Nono, noi veniamo qui per sentire della musica e tu ci ributti dentro alla fabbrica!?”.

Ed è sempre in questo momento del film che si esplicita l’irrisolutezza dell’opera semidocumentaria diretta da Massimiliano Carboni: storia di un fallimento, di uno scacco d’artista. L’attore, il comico, il politicamente impegnato Paolo Rossi, si reca a Pomigliano D’Arco nel bel mezzo della vicenda che vede protagonisti la Fiom da un lato e la politica del cosmopolita quanto vetusto (nei metodi e nella visione industriale) nuovo Amministratore Delegato della Fiat, Sergio Marchionne. L’intento di Rossi è quello di girare dei sopralluoghi – Pasolini docet – per un film di finzione che narri, attraverso un improbabile tono da “surrealismo civile”, il conflitto che è esploso nel paese un tempo simbolo del rilancio industriale del Sud, la “Stalingrado d’Italia”. All’arrivo in stazione, però, in luogo dell’accoglienza e della vitalità tipiche campane, l’atmosfera è gelida, distanziante. L’edificio sembra una curiosa astronave aliena. Da qui il primo di una serie di corto circuiti che spazzano via ogni luogo comune e mettono in continua crisi il progetto del film.

Il problema di fondo di RCL – Ridotte Capacità Lavorative, fatta salva la vis comica e l’intelligenza del suo protagonista, sta proprio nel fatto che la storia di un’incapacità di raccontare l’assurdità della vicenda di Pomigliano invade il film stesso e lo rende in qualche modo disorganico, inerte. Era una occasione e (perché no) anche una grossa responsabilità realizzare un lavoro su un argomento così complesso e delicato: avrebbe meritato un maggiore spessore. Invece la pellicola scorre tra momenti di cronaca e interviste classiche, divagazioni d’attore e episodi di finzione, incerta sul tono da prendere. Non ci sarebbe nulla di male (si tratta d’altronde di un’opera scarna, a basso costo, volutamente disordinata, anarcoide come lo è la figura di Paolo Rossi) se non fosse che i momenti in cui si vorrebbe dar voce a quei lavoratori che non hanno accettato di cedere al ricatto dell’azienda ci sono eccome; e c’è anche la pretesa di spiegare la vicenda come avrebbe fatto una vera opera civile d’altri tempi. Ma nel suo volare basso, nel suo approccio un po’ “casinista”, un po’ rinunciatario, ogni cosa diventa più leggera e indefinita di come vorrebbe forse essere rappresentata. Così la lunga sequenza della cena con gli operai scivola via senza quasi colpo ferire, e al protagonista (assoluto, onnipresente) non resta che dichiarare una resa già annunciata, con un finale e scontato omaggio al genio di Chaplin e al suo Tempi moderni, unica opera cinematografica che abbia realmente mostrato l’alienazione dell’operaio-massa nella moderna società capitalista.

GIORDANO DE LUCA

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