Passioni e desideri

Dal regista di City of God, un intreccio di storie e personaggi di varie nazionalità per una riflessione sull'interconnessione globale che ha il sapore di un raffinato ma sterile divertissement.

Non si parla mai abbastanza degli effetti controproducenti, se non deleteri, spesso generati dall’edizione italiana di un film. Ne è un esempio lampante il caso di Passioni e desideri, ultimo lavoro del brasiliano Fernando Meirelles, già autore di City of God e del pregevole The Constant Gardener – La cospirazione, ennesima vittima – suo malgrado – di una pratica ottusa di adattamento che, nel tentativo di accattivarsi un pubblico generalista e trovare una collocazione sul mercato (si parla di un prodotto realizzato nel 2011 e accolto altrove senza particolare entusiasmo), finisce per snaturare il fine ultimo dell’opera, disattendendo le aspettative dello spettatore più attento e sensibile al tocco del regista. Nato da una riflessione dello sceneggiatore Peter Morgan (Frost/Nixon – Il duello) sull’effetto domino innescato dalla crisi bancaria dello scorso decennio e lontanamente ispirato alla pièce di Schnitzler Girotondo, Passioni e desideri sviluppa un discorso sull’interconnessione umana all’interno di una società globalizzata, affidandosi al pluralismo linguistico e all’assortimento geografico fornito dal ricco cast internazionale: niente di più lontano, insomma, dal fuorviante titolo nostrano – evocativo, piuttosto, di una sorta di polpettone sentimentale – a fronte dell’originale 360, decisamente consono al senso di circolarità perseguito, laddove, mai come qui si rivela inopportuno il ricorso al doppiaggio, che vanifica il gioco sulla mescolanza di idiomi (ben sette: inglese, francese, russo, arabo, ceco e portoghese brasiliano) appiattendolo sulla dizione e lo spessore recitativo di una qualunque fiction di ambientazione romana. Ed è un vero peccato, anche perché, al di là della peculiarità dello spunto, la pellicola ha poco altro da offrire. La storia si dipana a partire da una circostanza fortuita, quella che impedisce a un uomo d’affari britannico in trasferta a Vienna, di tradire la moglie con una prostituta slovacca: come in una catena, dall’evento scaturisce un complesso intreccio di incontri tra persone di diversi Paesi e diverso ceto, in differenti parti del mondo.

C’è la ragazza brasiliana, che dopo aver scoperto la relazione del fidanzato con un’altra donna, decide di tornare in patria; lo stupratore seriale statunitense, appena uscito da una lunga detenzione in un carcere del Colorado; e ancora, il dentista parigino di origine araba, diviso tra l’amore per una donna russa sposata e i precetti della sua fede islamica, e così via. Filo conduttore è il tema dell’infedeltà, per una pochade dalle maglie larghe tra le quali si inserisce un retroterra di considerazioni spicciole sull’amore e la fatalità, sulla solitudine e sul senso di estraneità ma anche sul confronto tra varie culture, messo in scena da Meirelles con piglio sobrio e disinvolto. Forse pure troppo. Perché se si apprezza l’assenza di eccessi melodrammatici e melensaggini, la discrezione con la quale si cerca di mantenere il registro realistico delle situazioni senza mai forzare i toni, siano essi drammatici o più leggeri, la controparte è un’asetticità di fondo che impedisce di entrare appieno nella vicenda, di rendersi partecipi del vissuto dei protagonisti. In altre parole, tutti gli sforzi e il talento del regista sembrano riposti più sulle modalità del racconto e sulla sua tenuta, che sui contenuti dello stesso, col risultato di una gestione impeccabile della narrazione, che scorre, tutto sommato, senza intoppi mantenendosi avvincente nonostante certe debolezze – l’incursione nel thriller della parte finale e la caduta in un epilogo accomodante e consolatorio – e per contro, di un’incapacità di coinvolgere al di là dell’intrattenimento offerto da ciò che, in ultima analisi, non appare altro che un elegante quanto sterile divertissement. Ineccepibile l’apporto del cast, che unisce le ottime prove di Jude Law, Rachel Weitz, Moritz Bleibtreu e Jamel Debbouze, dei meno noti ma non meno convincenti Dinara Drukarova e Ben Foster, fino a un Anthony Hopkins insolitamente dimesso e controllato nella sua gigioneria.

CATERINA GANGEMI