12 jours

È bellissimo l’esergo che apre 12 jours, il nuovo film di uno dei maestri del documentario francese Raymond Depardon: “Dall’uomo all’uomo vero, il cammino passa attraverso l’uomo folle”. La frase si trova in Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault e sembra la dichiarazione di poetica di un film che prova a ragionare sul rapporto tra follia e potere, mostrando quel cammino che divide l’uomo dall’uomo vero.

Il film si svolge in un ospedale psichiatrico di Lione e mostra le udienze durante cui i giudici devono decidere se proseguire i trattamenti ospedalieri obbligati ai pazienti giudicati mentalmente instabili: i 12 giorni sono quelli in cui per legge il giudice deve decidere se l’ospedalizzazione è legittima o no.

 

Un documentario “frontale” in cui Depardon mostra quelle udienze e il rapporto tra pazienti, giudici e avvocati per raccontarne l’umanità possibile anche in un meccanismo istituzionale e legale.

12 jours si inoltra lentamente lungo i corridoi, i giardini e i dintorni dell’ospedale per poi entrare nelle sale d’udienza e inquadrare con primi e primissimi piani i protagonisti con fortissima comprensione e compassione (come nel tossicomane che sogna di ringraziare l’umanità del giudice quando sarà calciatore professionista) e attraverso questo provare ad ampliare il discorso su come i meccanismi del potere definiscano i rapporti umani dentro i concetti di giusto e sbagliato, normale e anormale.

Un gioco di campi e controcampi in cui Depardon conferma una pratica umanista che non si nega il linguaggio, che non finge di sparire dietro la camera.

Il solo grande limite del film è nella ripetitività della sua struttura che ne impedisce un po’ la risonanza, l’apertura a uno sguardo generale (tanto più che le musiche “sbagliate” di Alexandre Desplat sembrano messe proprio per spezzare il ritmo); ma Depardon si fida completamente dei fondamentali del documentario, ossia luoghi e persone, e così 12 jours riesce a parlare dell’essere umano – folle o no – guardandolo negli occhi senza paure.

Emanuele Rauco