Pride

1984, Gran Bretagna. La politica di lacrime e sangue imposta dall’allora primo ministro Margaret Thatcher prevede lo smantellamento di venti siti estrattivi e la perdita di numerosi posti di lavoro. I minatori di tutto il paese non ci stanno e organizzano uno sciopero che si protrae per quasi un anno. Particolarmente grave la situazione a Onllwyn, villaggio del Galles che vive grazie all’estrazione del carbone: le cariche della polizia, gli arresti e la fame rischiano di piegare la volontà dei minatori, ma un gruppo di giovani londinesi, riuniti nella sigla LGSM (Lesbians and Gays Support the Miners), interviene offrendo sostegno morale e supporto materiale.
Nel solco già tracciato da Grazie, signora Thatcher (1996) e Billy Elliot (2000), una nuova scoppiettante commedia inglese dalla parte degli ultimi: Pride gioca di sponda tra la working class hero di Loach e l’esuberante marginalismo del cinema camp, destreggiandosi tra marcetta e farsetta, solidarietà erga omnes e allegro gioco dei contrari.
Operazione più nostalgica che vitale, partigiana sì ma genuina, Pride pecca di contestualizzazione (non chiarisce mai i termini della questione politica, preferendo relegare la Thatcher nella cerchia dei cattivi) e rifugge la storia (che decreterà il fallimento del movimento e la chiusura di tutte le miniere di Gran Bretagna), per cogliere qualcosa di più importante, il ribollio di una comunità senza paletti, edificate sul terreno umano della dignità e dei diritti.
Un “avanti popolo” scombiccherato, con i colori e la pop music anni ’80 (ma c’è anche una bellissima, popolarissima e proletaria Bread and Roses a cappella, da mozzare il fiato), che diverte, esalta, commuove ma non conquista – quei tempi son finiti: non c’è niente da fare.
La consumata abilità dei teatranti Stephen Beresford (sceneggiatore) e Matthew Warchus (regista) ci mette del suo, confezionando un copione ad orologeria, dove ritmo e partitura sono tutto e animano personaggi, dialoghi e situazioni non strettamente originali.
In questo Pride è coerente: dalla forma al contenuto, vale l’intero per la parte. Ah, beata nostalgia…

Gianluca Arnone per cinematografo.it