Solving

Quello di Giovanni Mazzitelli è un interessante documentario che racconta la crisi economica, e i suoi effetti sul tessuto sociale, da un'ottica precisa: quella di un imprenditore in trincea, seguito a distanza ravvicinata per tutta la durata del film.

La crisi economica: un argomento sulla bocca, e nei pensieri, di tutti, da ormai oltre cinque anni a questa parte. C’è chi, al cinema, ha voluto raccontarla con toni più o meno realistici, chi ha voluto esorcizzarla scherzandoci sopra, chi l’ha rappresentata nelle sue implicazioni su un particolare tessuto sociale (quello italiano) e su una categoria di persone (i giovani disoccupati o i precari). Un genere come il documentario, tuttavia, non poteva esimersi dall’offrire il suo punto di vista sulla drammatica realtà che sta accomunando tutti i paesi dell’Occidente: e il fatto che recenti esempi di cinema nostrano (parliamo ovviamente di Sacro GRA di Gianfranco Rosi, e di Tir di Alberto Fasulo) abbiano ricevuto riconoscimenti così importanti, affrontando, seppur in modo collaterale, questo argomento, rappresenta un segnale importante. Questo preambolo, lo facciamo per dire che il film di Giovanni Mazzitelli, Solving, già presentato con successo in alcune manifestazioni indipendenti (le Giornate del Cinema di Napoli, il Popoli e Religioni Film Festival di Terni), trova un terreno decisamente fertile per la sua visibilità: sia per i temi che racconta, sia per la modalità che sceglie per rappresentarli. Il punto di vista adottato dal film di Mazzitelli (già sceneggiatore dell’indipendente Vitriol, e assistente di produzione di La-Bas di Guido Lombardi) è comunque abbastanza insolito per il cinema: quello di un imprenditore “in trincea”, colpito e fiaccato dalla crisi nella sua stessa voglia e capacità di vedere il futuro, tra clienti insolventi, freddi e sordi responsabili bancari, l’immancabile presenza di uno stato che succhia risorse senza restituire nulla, e lo spettro, sempre presente, di tragedie che hanno coinvolto tanti colleghi che non ce l’hanno fatta.

Rappresentarsi e raccontarsi
Il protagonista di Solving è, in effetti, proprio il suo ideatore e principale finanziatore: Salvatore Mignano, imprenditore napoletano nel campo degli accumulatori di energia, è allo stesso tempo oggetto dell’osservazione (puntuale, costante) della videocamera del regista, e ispiratore dell’intero progetto. L’immagine, sia intima che pubblica, che il film restituisce di Mignano, è quella che lui stesso ha voluto con forza trasmettere allo spettatore: quella di un uomo cresciuto “all’università della strada”, animato da valori come umiltà e lealtà, circondato dalla solidarietà dei suoi collaboratori e dipendenti, inevitabilmente incapace di arrendersi alla crisi. Malgrado le affermazioni, comunque stimolanti, del sociologo Francesco Alberoni (che contrappuntano e commentano il racconto delle vicende del protagonista) che tendono a dipingere l’imprenditore come figura in qualche modo “epica”, non c’è nulla di ciò nell’immagine dell’industriale napoletano restituita dal film: Mazzitelli sceglie di mettere sullo schermo la sua figura nel modo più semplice possibile, pennellandone la quotidianità, valorizzandone la schiettezza (a volte disarmante) ed evitando di conferire una qualsiasi dimensione eroica alla figura di un uomo che resiste alla crisi. Colpisce la tranquilla solidità di una personalità d’altri tempi, l’incapacità di “mollare” che risalta quasi come un tratto genetico (e quindi involontario) del suo carattere: una cocciutaggine serena, se così la si vuole chiamare, che non abbandona il protagonista neanche nei momenti di maggiore difficoltà, e che addirittura lo porta a imbarcarsi nell’avventura cinematografica. Avventura non abbandonata, nonostante le difficoltà riscontrate (e mostrate nel film) negli esordi: il marchio di questo documentario sta lì a dimostrarlo.

Uno spaccato sociologico, tra interno ed esterno
La lunga gavetta fatta dal regista (qui al suo esordio nel lungometraggio) tra cinema e televisione, si fa sentire nell’ottima confezione di questo documentario: malgrado la semplicità della sua idea, Solving è visivamente curato, in molti tratti persino accattivante. Il regista non ha paura a valorizzare il paesaggio, quello notturno delle strade cittadine, o quello quotidiano dei viaggi in automobile del protagonista fino alla sua fabbrica, quasi a metterne in risalto l’inevitabile isolamento. Soprattutto, il suo obiettivo è sempre a distanza ravvicinata da Mignano, gli resta agganciato per tutta la durata del film, sia nei momenti di interazione con gli amici (e i nemici), sia in quelli privati, in cui risalta la sostanziale solitudine (in qualche modo, tuttavia, anch’essa serena) che lo contraddistingue. La crisi, raccontata dagli interventi del giornalista Franco Di Mare e dell’economista Sergio Luciano, resta rigorosamente fuori campo: eppure, i suoi effetti sono tutti lì, sul volto dell’imprenditore e su quello dei suoi dipendenti, nell’incertezza e precarietà esistenziali che avvolgono tutti coloro che ruotano intorno alla sua attività. Si sente, soprattutto, negli interventi di Tiziana Marrone, moglie di un imprenditore suicida, che sicuramente rappresentano i momenti emotivamente più intensi e coinvolgenti dell’intero film. Una scelta sicuramente rischiosa, quella di inserire una storia così decontestualizzata (e a forte rischio di retorica) in un documentario che fin dall’inizio si incentra sulla storia di un singolo individuo, e sul suo personale percorso. Tuttavia, la drammatica vicenda raccontata dalla donna, insieme agli interventi delle personalità su ricordate, rappresentano il perfetto contraltare “esterno” (affidato alle parole e al racconto) alla cronaca “interna”, per immagini, di una vita che non rifugge alle sfide più ardue. Lo spaccato sociologico del film, che non pretende certo di esaurire la realtà della crisi, sta in entrambe queste due, inscindibili, componenti.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi