Speciale Venezia – 10° giorno

06/09/08 - L`allarmismo precoce (e anche un po` preventivo) sulla scarsa qualità di Venezia 65...

Speciale Venezia 65 – Decimo giorno

(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)

06/09/08 – L`allarmismo precoce (e anche un po` preventivo) sulla scarsa qualità di Venezia 65 deve essere per fortuna parecchio ridimensionato, una volta che si è vicini alla conclusione del festival e che sono stati mostrati tutti i film in Concorso. Ad onor di cronaca va detto che, in buona misura, il merito di una competizione all`altezza della tradizione lo si deve ai film giapponesi (Kitano, Miyazaki e Oshii, anche se nessuno dei tre è perfetto), ma soprattutto agli americani con Hurt Locker della Bigelow e con i capolavori – o quasi – Rachel Getting Married di Jonathan Demme e The Wrestler di Darren Aronofsky, ultimo film in programma del Concorso. Il lungometraggio del regista newyorchese rientra tra le classiche storie americane dedicate a losers autodistruttivi e diventati troppo vecchi per andare avanti. Nel ruolo della carriera, Mickey Rourke interpreta il wrestler The Ram, solo e malato di cuore, che non sa far altro nella vita che continuare a salire sul ring per sentirsi amato dal pubblico.

Il “cupio dissolvi” della sua “maschera” è raddoppiato dall`uguale consapevolezza mortifera (nascosta però con dignità ) di una spogliarellista non più giovane, ormai ignorata dai clienti del locale in cui lavora (Marisa Tomei, a nostro parere in corsa per la Coppa Volpi insieme ad Anne Hathaway). I due provano ad instaurare una relazione, identificandosi l`uno nell`altra in uno stesso status sociale borderline. Incarnato da due corpi venduti e perduti, The Wrestler diventa uno spietato e romantico racconto dello “spettacolo” popolare americano (e, di riflesso, anche del cinema e del ruolo dell`attore) e della condanna alla giovinezza dei suoi divi; uno show business in cui i suoi interpreti sono costretti a mummificare il proprio fisico per continuare a sopravvivere, per potersi pagare l`affitto della roulotte in cui vivono solitari.

A chiudere Orizzonti, la seconda sezione competitiva del festival, è stato invece un film russo, Wild Field di Mikhail Kalatozishivili. Il protagonista è un giovane dottore che vive in una comunità “espansa”: una prateria in cui i vicini abitano ad ore di cammino l`uno dall`altro. Film interessante, ben girato e ben fotografato, ma decisamente troppo aneddotico e discontinuo.
Un appuntamento importante quanto drammatico della giornata è stata la proiezione dei due film sulla ThyssenKrupp di Torino. Siamo riusciti a vedere solo il documentario di Calopresti, La fabbrica dei tedeschi. Innanzitutto va detto che è sempre difficile cercare di verbalizzare una critica su lavori che raccontano delle tragedie così vicine nel tempo, privandosi perdipiù della mediazione culturale od estetica. Il film del regista torinese sui sette morti dello scorso dicembre è infatti molto televisivo nella messa in scena delle interviste, è ricattatorio in certe fasi ed è anche un po` autoreferenziale, visto che Calopresti, oramai preda di un narcisismo sconfinato, si riprende in continuazione.

Detto ciò bisogna però aggiungere che il racconto della tragedia risulta abbastanza chiaro e dunque quantomeno La fabbrica dei tedeschi risponde ad una esigenza primaria, quella di informare e di documentare come sia negletto oggi in Italia il mondo del lavoro e soprattutto come sia stata criminalmente dimenticata la classe operaia. Chiudiamo con una delle riscoperte dal passato su cui Venezia lavora con molto merito, almeno a partire dalla gestione Mà¼ller: Kettà´ Takadanobaba di Masahiro Makino e Hiroshi Inagaki del 1937, una sorta di commedia lubitschiana ambientata in un villaggio governato da un samurai sempre ubriaco, del quale si innamora una ragazza benestante. Al di là dell`ironia profusa nella pellicola, il duo di registi ha confezionato una messa in scena molto interessante: i duelli, ad esempio, vengono il più delle volte ripresi con la macchina fissa in modo tale che i personaggi attraversino agilmente lo spazio sfruttando la profondità di campo. Ma ciò che rimarrà soprattutto nella memoria è una lunga e ipnotica corsa del protagonista, che deve andare a salvare lo zio. Il samurai corre e corre, ma nel passaggio da un`inquadratura all`altra non riesce mai ad uscire dal campo della ripresa. In questo modo sembra che l`uomo, più che avanzare, arretri e così si rende perfettamente la disperazione della sua corsa: una trovata che è tanto geniale da essere degna del miglior Buster Keaton e nella quale qualche festivaliero qui al Lido, saltando da una sala all`altra, si è identificato.