Too Much Johnson

Proiettato in prima mondiale alle Giornate del Cinema Muto, dopo il casuale ritrovamento, il film di Welles del '38 doveva essere il prologo di una commedia teatrale ma, visto oggi, mostra una sua coerenza narrativa, quella di un lungo inseguimento sul modello delle comiche anni '20 ed è la conferma del talento per la commedia del cineasta americano, troppo spesso sottaciuto.

Il ritrovamento di Too Much Johnson, film incompiuto del 1938 di Orson Welles, ha del miracoloso e dell’incredibile, perché l’unica copia esistente è riemersa alla luce proprio a Pordenone dove da 32 anni si svolgono Le Giornate del Cinema Muto ed è a tutti gli effetti, oltre al breve cortometraggio The Hearts of Age del ’34, l’unico film muto di Welles. Le casse che contenevano il film sono rimaste per più di vent’anni in un magazzino di Pordenone, provenienti da Roma, senza che nessuno sapesse cosa vi fosse dentro. Poi, spostate negli spazi dell’associazione Cinemazero, co-fondatrice e co-organizzatrice delle Giornate, sono rimaste chiuse ancora per qualche anno e quindi finalmente aperte perché letteralmente puzzavano, visto che le pellicole soffrivano di sindrome acetica. A quel punto ci è voluto ancora un po’, fino all’inverno del 2012, per capire che, tra le altre cose, lì si celava anche Too Much Johnson, film che Welles diresse nell’estate del 1938 e che, rimasto incompiuto, non era mai stato proiettato pubblicamente, fino almeno allo scorso 9 ottobre quando, grazie alla rassegna friulana, è stato possibile vederlo, a ben 75 anni di distanza dalla sua realizzazione. Un’occasione storica dunque, che di qui in poi costringerà a rimettere mano alla filmografia di Welles e alle monografie a lui dedicate.

Certo, va pur sempre valutato che Welles, con Too Much Johnson, non intendeva dirigere un film tradizionalmente inteso. In effetti, le riprese che il cineasta americano girò a New York nell’estate del 1938 dovevano servire da prologo di una commedia teatrale di William Gillette intitolata per l’appunto Too Much Johnson e interpretata dagli stessi attori cui Welles chiese di recitare nelle parti filmate. Si trattava perciò di un complemento allo spettacolo e ciascuno dei tre atti della commedia doveva essere preceduto da dei filmati – quindi non un solo prologo, ma tre – della durata complessiva di poco più di 40 minuti.

Ma, sia perché il teatro che avrebbe ospitato lo spettacolo non era attrezzato per delle proiezioni sia perché erano finiti i soldi, alla fine la commedia andò in scena senza i prologhi. Welles perciò lasciò incompiuto il materiale, che nella versione in cui ci è arrivato dura 66 minuti, quindi più di venti minuti della durata inizialmente stabilita. Date tutte queste premesse, vien quasi voglia di definire Too Much Johnson un lungometraggio suo malgrado ed è per questo suo paradossale status che andrà valutato da qui in avanti.
Infatti, ormai finiti nel dimenticatoio sia la commedia originale che l’autore di quel testo, ciò che appare a noi è un film in cui Welles si è divertito a ricostruire il linguaggio del cinema muto, e in particolare quello delle comiche anni ’20. In maniera più precisa, è probabile che in cima ai pensieri di Welles ci fosse Preferisco l’ascensore (Safety Last, 1923) in cui Harold Lloyd si arrampicava sui tetti di Los Angeles. In Too Much Johnson si vede infatti Joseph Cotten – che reciterà anche in Quarto potere e ne L’orgoglio degli Amberson – fingersi Alfred Johnson, fantomatico proprietario di una piantagione a Cuba, e ritrovarsi ad essere inseguito dal marito della sua amante, interpretato da Edgar Barrier (che nel 1948 reciterà, sempre per Welles, in Macbeth). Al di là di alcune brevi apparizioni di altri personaggi, sono proprio Cotten e Barrier i protagonisti assoluti del film, in una girandola di inseguimenti che passa dai tetti di New York per l’appunto, a una manifestazione di suffragette che chiedono il diritto di voto per le donne – il film è ambientato, come la commedia, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – fino a una nave pronta a salpare e, infine, a Cuba dove i due si rincontrano proprio nella piantagione di cui Cotten/Johnson si è finto proprietario. Qui, ormai esausti, si ritrovano sotto la pioggia in una pozza d’acqua e stringono una sorta di tacito accordo all’insegna della rassegnazione.
Se, inoltre, è vero che – non essendo mai stato finito il montaggio – appaiono nel film diversi ciak ripetuti, è anche vero che Too Much Johnson non può e non deve essere considerato un reperto solo per archivisti e storici del cinema, come purtroppo è successo finora per altri lavori incompiuti di Welles, dal Don Chisciotte a The Other Side of the Wind.

Pur non paragonabile alla grandezza di altri incompiuti wellesiani, Too Much Johnson è – nella sua dinamica da divertissment – il tassello fondamentale che mancava per poter finalmente porre in primo piano anche le capacità di Welles come regista di commedie e di film comici. Due sequenze in particolare meritano di essere segnalate: la prima è l’iniziale scena di sesso tra Cotten/Johnson e la sua amante con un montaggio rapidissimo e con la presenza scenica di una pianta le cui foglie vanno ripetutamente sul volto di Cotten distogliendolo; la seconda è la sequenza del marito cornificato che, folle di gelosia, aggredisce chiunque incontri e gli toglie il cappello con lo scopo di individuare l’amante di sua moglie. Se la scena di sesso suggerito è qualcosa di inaudito grazie al montaggio spiazzante (anticipa delle soluzioni che arriveranno solo negli anni Sessanta), la sequenza “dei cappelli” è una scena che, secondo tradizione delle comiche, gioca sull’accumulo e sulle variazioni del tema (le espressioni di volta in volta diverse delle persone che si ritrovano senza copricapo) e che però riesce ad ascendere fino al visionario nel momento in cui il marito sconfitto e furibondo, ripreso dall’alto, vaga per delle strade ormai colme di cappelli abbandonati.

Decidendo inoltre di girare il film a meno di 24 fotogrammi al secondo – in modo tale che poi una volta proiettato gli attori si muovessero più velocemente e più a “scatti” – e mettendo in scena anche alcuni poliziotti a mo’ di Keystone Cops come nelle comiche di Mack Sennett, Welles dimostra che, già nel 1938, aveva una consapevolezza critica e “storicista” del mezzo cinematografico, compiendo una sorta di operazione manierista ante litteram. Mentre di suo, di tipicamente wellesiano, pare di riconoscere almeno un paio di elementi: lo sfruttamento della profondità di campo e in generale di ottiche grandangolari (anche nei primi piani, che sarà poi una caratteristica del suo cinema, da Quarto potere in poi) e lo sviluppo dell’azione su più piani dell’inquadratura, come se ci si trovasse per l’appunto su un palcoscenico teatrale.
Che percorso avrà ora Too Much Johnson ancora non è dato saperlo e non sappiamo nemmeno come verranno confezionate le prossime visioni pubbliche del film, anche perché va ricordato che qui a Pordenone ci si è potuti avvalere della preziosissima testimonianza di Paolo Cherchi Usai, restauratore del film con la George Eastman House e tra i soci fondatori della Giornate del Cinema Muto, che ha commentato Too Much Johnson durante la proiezione come una sorta di oratore, per una esperienza cinematografica unica, divertente, commovente ed eccitante. Un evento raro e inedito, probabilmente irripetibile, che però ha restituito la magia primigenia del cinema di fronte all’epifania dell’ennesimo magnifico contributo dato da Welles alla Settima Arte.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi