Winter il Delfino

13/01/12 - Charles Martin Smith mette in scena un cinema per ragazzi ultraconvenzionale, inutile occasione per un ennesimo, vano sfruttamento del 3D.

Cinema edificante in formato 3D. Ormai la nuova tecnologia di cinema stereoscopico si presta alle più svariate declinazioni, e pare piegarsi non solo alle mirabilie del film d’avventura, d’animazione, fantasy, comics o d’azione, ma anche a storie che non sono totalmente funzionalizzate all’effetto. Se da un lato può essere intrigante vedere il 3D alle prese con il linguaggio cinematografico nel più ampio senso del termine, dall’altro si rimane piuttosto basiti di fronte a opere come L’incredibile storia di Winter il Delfino, strano ibrido che non si presta in assoluto allo sfruttamento tridimensionale, se non per sporadici effetti subacquei, e che al tempo stesso però non rielabora in modo originale le nuove risorse tecnologiche di recente acquisizione. Si tratta di cinema per ragazzi, d’accordo, che si allinea a una retorica ben consolidata e che per questo non lascia grandi spazi a sorprese o “eccentricità”. Cinema radicato nella convenzione fino allo spasimo, dove si riecheggiano decine e decine di modelli preesistenti. C’è poco da stupirsi, insomma, di fronte ai quintali di melassa in cui la storia è avvolta, che permettono al film di trasformare un’importante vicenda reale in una fiaba ipercalorica. E’ una consuetudine ricorrente nel cinema statunitense, quella di cercare di elevare il racconto affidandosi al confortante cartello d’apertura “Ispirato a una storia vera”. Ma nel film diretto dal caratterista e poi mediocre regista Charles Martin Smith di realtà se ne respira pochissima, tanti sono i nuclei narrativi paralleli che mirano solo e soltanto al didascalismo più facile. E, sia detto, pure poco veritiero. Perché, per fare un esempio eclatante, è piuttosto dubbio che un reduce mutilato di guerra possa ritrovare una speranza nella vita tramite l’incontro con la “forza d’animo” di un delfino. Si finisce perciò nel solito ottimismo americano che abbina spesso riscatto del vivere ai buoni sentimenti, al ritrovato agonismo, e stavolta anche a un facile spirito animalista a pronta presa che già animò (poco) illustri precedenti, dai film anni Sessanta della Disney a Free Willy, Seabiscuit, e chi più ne ha più ne metta. Non si contesta l’ottimismo, ci mancherebbe, ma gli strumenti tramite i quali esso è espresso. 

Di nuovo, si tratta di cinema per ragazzi, concepito come tale in una chiave scopertamente positiva ed edificante. Ma, ammesso e non concesso che una pedagogia simile sia poi così giusta, stavolta non si rintraccia la minima emozione, il minimo gusto avventuroso, e neanche una vera e propria narrazione affidata magari alla più facile “peripezia infinita” made in USA. La piattezza dell’insieme è disarmante, poco divertente e per nulla commovente anche restando al livello più epidermico dell’emozione. E, soprattutto, è incredibile trovarvi coinvolti buoni o ottimi attori come Ashley Judd o Morgan Freeman (mon Dieu, sì proprio lui…) e quel che rimane di Kris Kristofferson. Un film che vivrebbe tranquillamente senza 3D, un sottoprodotto da tv-movie, o da uscita diretta in home video. E i bambini, c’è da crederlo, trascineranno i genitori fuori dal cinema dopo mezz’ora. Perché, sia pure ingenui, riconoscono la noia molto più istintivamente degli adulti. E, soprattutto, non si lasciano imprigionare dal senso di colpa per gli 11 euro buttati al vento.

MASSIMILIANO SCHIAVONI

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