Parola al Cinema

23/05/09 - Come tutti i grandi autori, Marco Bellocchio sfugge spesso a catalogazioni e schemi...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Vincere”: tra ricerca e convenzione

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def23/05/09 – Come tutti i grandi autori, Marco Bellocchio sfugge spesso a catalogazioni e schemi narrativi prestabiliti. Anzi, in un periodo creativamente poco felice, ma estremamente connotato a livello personale (il decennio che va dalla metà  degli anni ’80 alla metà  degli anni ’90), l`autore piacentino aveva optato per una scelta forte e consapevole di provocatoria antinarratività . Opere come “La visione del sabba” e “Il sogno della farfalla” cercavano strade in suggestioni simboliche, associazioni libere, allusioni alogiche, verso un cinema di impervia definizione e fruizione. In seguito, da “Il principe di Homburg” in poi, Bellocchio riscopre la narrazione, e lo fa tramite grandi classici letterari (von Kleist, Pirandello). Da allora la produzione di Bellocchio pare articolarsi su due filoni: uno più personale e antinarrativo tout court (“L`ora di religione”, “Il regista di matrimoni”), e un altro di lettura più accessibile, in cui l`autore cerca ardite mediazioni tra la sua tendenza alla ricerca d`avanguardia e lo studio di grandi caratteri o situazioni storiche. Appartiene a questo secondo filone, che annovera anche “Buongiorno notte”, il tanto discusso “Vincere” appena uscito nelle sale e presente in concorso a Cannes. Opera controversa, che sul piano narrativo appare, per curioso paradosso, al tempo stesso ellittica e rigonfia, allusiva e ridondante, reticente e sovraccarica.

vincere“Vincere” è di gran lunga l`opera più aperta al pubblico che Bellocchio abbia prodotto da molti anni a questa parte. Sul piano narrativo contrappone due sezioni nettamente distinte: una prima parte molto convincente, dove l`autore si riscopre grande ricercatore di linguaggi e la scrittura appare fortemente sperimentale, e una seconda parte dove lo sperimentalismo si fa sempre più rarefatto fino ad approdare ai toni di un convenzionale melodramma. Sia chiaro, è possibile ritrovare tutti i marchi di fabbrica bellocchiani (che, però, col passar degli anni, somigliano sempre più a vezzi autoriali e sempre meno a reale ispirazione): la corrosività  verso la chiesa e le istituzioni, il grottesco aggressivo in certi ritratti (il personaggio di donna Rachele, la stessa Ida Dalser che qua e là  Bellocchio deride come una banalissima folle d`amore), un rigore di messinscena che talvolta ricorda il teatro d`avanguardia, più tedesco che italiano. Ma l`elemento nuovo, che emerge poco alla volta nello svolgersi del film, è l`empatia con la protagonista, la partecipazione emotiva, anche una certa umana commozione: niente di più alieno al cerebrale, corrosivo, impietoso Bellocchio. La prima parte propone un`ampia gamma di ricerche narrative ed espressive verso territori inesplorati, che richiamano generi e stili artistici desueti: lo slogan militante, il melodramma assordante in colonna sonora, il gusto futurista per la provocazione. E la sferzata grottesca colpisce sia Mussolini sia la Dalser, tanto che sulle prime è pure arduo stabilire chi tra i due è più vittima o carnefice. Poi, per impercettibili spostamenti progressivi, la narrazione lascia decadere tutto il suo cotè sperimentale, e si trasforma in un vero, sentito, partecipato dramma umano. La narrazione si fa sempre più ridondante, e in più momenti si ha l`impressione che la storia non proceda più, ma reiteri la stessa situazione, ogni volta più esasperata: ribellione all`autorità , tentativi di fuga dal manicomio, bisogno fisiologico di continuare a dire la verità . Strano, in un autore che si è sempre distinto per la sua estrema economia narrativa. Perchè, dunque? Probabilmente perchè, tramite questa figura dimenticata dalla storia, Bellocchio ha voluto tessere un elogio della tenacia e della costanza, ha voluto esaltare la forza della verità , e inaspettatamente si è commosso davanti a un ritratto di madre a cui il potere impedisce di essere tale.

Certo, è un po` difficile riconoscere in quest`appassionato cantore di maternità  negate, lo stesso autore che ne “I pugni in tasca” narrava con ineguagliato gelo grottesco un crudele matricidio. Sul piano narrativo è il dato più saliente di questo suo nuovo film. Un Bellocchio, verso il finale, umano e commosso, come mai si è visto prima. Ma sul piano narrativo “Vincere” può dirsi, dunque, un film riuscito? Non è facile dirlo. Prima ci fa sorridere cinicamente di questa fanatica del futuro duce, poi ci chiede di piangerla. Prima gioca di sottrazioni ed ellissi ai limiti della coerenza narrativa, poi racconta troppo, rasentando spesso la ridondanza e il didascalismo. Non è nemmeno un`opera confusa, perchè comunque ogni suo passaggio denota grande lucidità  nelle singole scelte dell`autore. Resta un esperimento interessante, un tentativo di conciliazione della spinta sperimentale propria a Bellocchio con il gusto popolare per il feuilleton d`epoca.

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