Parola al Cinema

04/07/09 - Dagli anni `90 in poi s`è venuta a creare una codificazione sempre più solida...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“La ragazza del mio migliore amico”: la commedia americana “prefabbricata”

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def04/07/09 – Dagli anni `90 in poi s`è venuta a creare una codificazione sempre più solida (e rigida) della commedia sentimentale americana, in cui, bene o male, si rispettano ritmi, personaggi e incroci narrativi di una puntualità  e ripetitività  a tratti sconcertante. Abbiamo visto ormai le varianti più inverosimili sulle quali costruire un film brillante sui sentimenti, ma la struttura portante resta sempre la stessa, e anche piuttosto antiquata, malgrado l`aggiornamento al turpiloquio odierno e alle varie libertà  sessuali (soprattutto nel linguaggio, poco nei fatti). Da Doris Day a Kate Hudson (passando per la madre di Kate Hudson, la gloriosa Goldie Hawn) il passo è davvero breve. Guerra dei sessi, equivoci a non finire, maschi irresponsabili in cerca di redenzione, femmine emancipate a parole ma sempre in cerca di principi azzurri, personaggi secondari coloratissimi e sopra le righe. Come del resto tutto quanto, in film del genere, è sopra le righe. Recitazione artificiosa, dialoghi elaboratissimi nei riferimenti (a volte le battute, per la loro ricercatezza un po` snob, rasentano l`incomprensibilità ), giravolte narrative inverosimili che farebbero invidia ai contorsionismi di un acrobata, scenografie confettose, e immancabili cerimonie di matrimonio fastose in bilico tra il grottesco volontario e involontario. E, ovviamente, lieto fine. Nonostante l`aria puntualmente finta, se ci si lascia prendere e se si scollega il cervello, in fondo un buon margine di divertimento è sempre assicurato.

Non fa eccezione nemmeno “La ragazza del mio migliore amico”, che viene da un regista più esperto e dotato della media, Howard Deutch, e che assembla un cast ampio e simpatico. Kate Hudson, il semisconosciuto (da noi) Dane Cook, Jason Biggs, Alec Baldwin. Al di là  delle risatelle che strappa qua e là , il nuovo film di Deutch è paradigmatico del suo genere, e fagocita così tante reminiscenze di film simili già  visti da apparire quasi una summa. Vi si possono riconoscere spunti di circa una decina di altre commedie: lo “sfigato sessuale” (“American Pie”, rappresentato dal suo stesso protagonista), il bello e irresponsabile che si stufa di esserlo (“About a Boy”), il padre, in seconda fila, ridicolo e pessimo esempio (ancora “American Pie”, ma anche la madre di Spanglish, e, se si considera che qui il padre occupa anche il posto dell`amico grottesco, viene in mente il rozzissimo Philip Seymour Hoffman di “E alla fine arriva Polly”), la donna che non trova uomini adeguati (“Qualcosa è cambiato”, “Tutto può succedere”, “Come farsi lasciare in 10 giorni”). E, non ultimo, è rispettato il nuovo canone da commedia americana dello spunto di partenza artificioso e inverosimile, basato su una sorta di lavoro o attività  eccentrica e (teoricamente) comica di per sè: qui abbiamo il personaggio di Tank che si adopera a far tornare le ragazze dai rispettivi ex-fidanzati. Abbiamo già  avuto chi s`impegnava a farsi lasciare in dieci giorni per scommessa giornalistica, chi si specializzava in ospite ai matrimoni (numerose le varianti: da “Quattro matrimoni e un funerale” – che, a distanza di anni e al confronto con i film a cui ha dato origine, ora appare un vero capolavoro -, a “Due single a nozze”, a “27 volte in bianco”), e poi abbiamo avuto la wedding planner, i consiglieri in fatto di donne (“Hitch”), fino addirittura allo scrittore di quarte di copertina (“Piovuta dal cielo”). Quanto più si sbizzarrisce (?) la fantasia degli sceneggiatori nel trovare occupazioni bizzarre ai loro personaggi, tanto più s`impoverisce la creatività  narrativa.

La commedia americana appare una specie di “Alien” che ingurgita, metabolizza e normalizza ogni minimo segno di eccentricità  che, nel corso degli anni, si palesa all`interno del suo genere. “Il matrimonio del mio migliore amico” lanciò il clichè dell`amico gay a corredo della protagonista, e la caratterizzazione di Rupert Everett fu umana e divertente. Negli anni lo schema si è ripetuto di film in film, subendo ogni volta un giro di vite sul grottesco. Fino al gay di “La ragazza del mio migliore amico” che è di nuovo una macchietta stile-Michel Serrault. “American Pie” ha riportato in auge la commedia “maialona” alla “Porky`s”: adesso il sesso trattato in modo ridicolo, opportunamente ripulito, imperversa in ogni nuova commedia, e qui Jason Biggs è la perfetta copia-carbone di se stesso in versione giacca-e-cravatta. “Tutti pazzi per Mary” sdoganò il politicamente scorretto per il grande pubblico. Adesso Kate Hudson usa il turpiloquio, è emancipata e scorretta, ma è una Mary più pettinata, più ordinaria, più conveniente. A testimonianza che la commedia americana divora i propri nemici per sopravvivere. E mentre conserva una facciata audace e corrosiva, man mano ritorna verso la convenzione e la propaganda di valori iper-tradizionali. Doris Day, appunto.

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