Roma: Dog Sweat

30/10/10 - "Dog Sweat", il film clandestino dell'iraniano Hossein Keshavarz manca di una forte idea di cinema...

Il film clandestino di Hossein Keshavarz manca di una forte idea di cinema

(Dal nostro inviato Emanuele Rauco)

30/10/10 – Da sempre il cinema è uno, se non il principale, medium col quale diffondere e denunciare gli orrori di dittature e propagande tiranniche, e da quando il governo di Ahmadinejad ha stretto la cinghia sui dissidenti e gli oppositori, il cinema ha risposto di conseguenza. Così dopo l’affaire Panahi e l’ottimo I gatti persiani di Ghobadi, Hossein Keshavarz racconta la società iraniana col suo primo lungometraggio, in concorso al 5° festival internazionale del film di Roma. Peccato che fatichi a trovare e colpire il suo bersaglio.

Il film racconta quattro storie minimali quasi incrociate: c’è la coppia gay costretta a nascondersi e separarsi, la cantante che non può cantare, la ragazza innamorata che cerca di fuggire alla repressione familiare, la donna all’ospedale che rischia di morire. Come una sorta di Iran oggi carveriano, il film scritto da Maryam Azadi è un viaggio nella quotidianità spenta dell’Iran contemporaneo, tra neorealismo e improvvisazione, a cui però difetta un forte nucleo filmico. Come il film, girato praticamente di nascosto e con difficoltà alle spalle delle autorità locali, anche i personaggi sono soggetti a rischio, che devono nascondere o negare le proprie identità per non risultare pericolosi agli occhi dell’oppressivo regime iraniano e della sua società: se la clandestinità e la precarietà delle riprese si sposano coi soggetti trattati, non riescono mai a diventare – come il precedente di Carver/Altman – a diventare un vero e completo (e complesso) affresco dell’Iran, a causa della mancanza di una forte idea di cinema.

L’andamento quasi casuale della sceneggiatura non lascia vedere la trama di un progetto etico e cinematografico, impedendo a Keshavarz di andare più a fondo della superficie, già tante volte scalfita, del malessere del mondo arabo. Pare che il regista si accontenti del minimo, di racconti in punta di penna, ma che lo stile – assente, in un modo o nell’altro – non tramuta mai in qualcos’altro. E qualora s’intuisca il bersaglio che si sarebbe voluto colpire, l’atmosfera attonita e stagnante e la conseguente resa degli attori non permettono di centrarlo.