Pine Ridge

In Pine Ridge l'umanità meravigliosa degli indiani d'America incontra un luogo surreale, quasi paradossale, in cui l'arretratezza culturale e sociale si fondono con alcuni tra i paesaggi naturalistici più straordinari di tutti gli State.s

Bert Lee guarda nel vuoto seduto su una panca all’ombra di un albero, Daniel Runs Close suda sotto il sole nel sito del Wounded Knee Memorial, Kassel Sky Little si infila gli stivali al Waters Rodeo e si fa intrecciare i capelli dalle sue amiche, Vanessa Piper è sola nel cuore delle Badlands, Lance Red Cloud si aggira di notte dietro la stazione di rifornimento per passare il tempo, vedere gente e non sentirsi troppo solo. È estate, loro sono giovani nativi americani e vivono nella riserva indiana di Pine Ridge nel South Dakota, la più grande d’America, nel territorio degli Oglala Lakota della tribù Sioux.

Protagonisti di questo affascinante documentario, realizzato dalla regista svedese Anna Eborn durante i suoi tre viaggi nel villaggio di Pine Ridge, mette insieme pezzi di vite difficili e pezzi di realtà raccontandoci la disillusione dei giovani residenti nella comunità: il loro passato, la loro Storia, i sogni e i ricordi, ma soprattutto le poche speranze sul futuro. Ognuno di loro racconta se stesso senza mai guardare la macchina da presa ma semplicemente muovendosi davanti ad essa come se questa non esistesse, raccontando della sua famiglia, delle sue aspirazioni, delle sue giornate; e subito il cinema della Eborn si fa verità, perché in Pine Ridge l’umanità meravigliosa degli indiani d’America incontra un luogo surreale, quasi paradossale, in cui l’arretratezza culturale e sociale si fondono con alcuni tra i paesaggi naturalistici più straordinari di tutti gli States. Sconfinate praterie, le formazioni rocciose delle Badlands e delle Black Hills con i laghi a regalare squarci di rara bellezza: undicimila chilometri quadrati in cui vagano le anime in pena dei discendenti della tribù Lakota Sioux che ancora oggi combattono l’assimilazione alla società americana e non ha perso le speranze di tornare un giorno a possedere la loro terra d’origine, un luogo sacro e inviolabile che fu loro sottratto dopo l’uccisione di Cavallo Pazzo, evento che nel 1877 segnò la fine della resistenza indiana, l’inizio dell’occupazione dei bianchi e la ‘reclusione’ di massa nella riserva di Pine Ridge.

Primo documentario dell’autrice classe 1983, autodidatta con all’attivo diversi cortometraggi, Pine Ridge è una sequenza di scene cullate da una splendida colonna sonora e legate tra loro dai racconti di questi ragazzi che vivono la povertà, l’abbandono, la noia e la sofferenza ogni giorno sulla loro pelle senza poter far nulla per cambiare le cose. La camera a mano attaccata ai loro corpi si riposa più volte lasciando posto a lunghe scene con inquadratura a camera fissa che scrutano da lontano correre verso l’orizzonte pensando a quanto sarà bello il giorno in cui arriverà la morte. Pine Ridge è un luogo straniante, fatto di incrocio di strade desolate e polverose che collegano case prefabbricate e fatiscenti roulotte in cui l’immondizia viene stipata sul tetto, un luogo in cui il rapporto con gli animali è ancestrale e talvolta violento.

Il centro della vita della comunità di Pine Ridge è rappresentato però dal Big Bat, a questo proposito vi invitiamo a visitare il sito ufficiale del film, una stazione di servizio con minimarket annesso in vero stile americano aperta 24 ore su 24, punto di raccordo con la realtà per molti dei ragazzi della comunità. E’ in quel luogo che ci porta la regista per raccontare meglio il loro disorientamento: è dai loro sguardi persi nel vuoto, dai loro discorsi e dal modo in cui commentano quel viavai così frenetico di gente che ci si rende conto di quando questi indiani siano diversi dagli indiani che mille volte abbiamo visto nei film, di quanto sia triste percepire dagli occhi di un’intera generazione la sensazione di vivere in trappola in un luogo del mondo e in una vita che non gli apparteneva in passato e tanto meno gli appartiene oggi. Ma lo sguardo ed il tono finale è positivo, ottimista, malinconico ma pieno di speranza, perché anche quando tutto sembra perduto basta una corsa in bicicletta o una passeggiata per decidere di prendere in mano il proprio futuro.

Luciana Morelli per Movieplayer.it Leggi