Cavalleria

Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini: "dramma di regime" dai toni malinconici, lontano da trionfalismi di propaganda. Con Amedeo Nazzari. In dvd per Medusa dal 26 settembre.

Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni

italian graffitiPer il cinema di epoca fascista spesso pare necessario porre una lente d’ingrandimento su ogni singola opera. Scavalcare cioè la superficie ideologica, che in misura maggiore o minore alligna in tutto il cinema italiano degli anni ’20 e ’30, per trovarsi poi spesso davanti a qualche sorpresa. E’ assai difficile infatti mettere un’asticella netta tra cinema puramente di propaganda e cinema veicolante espressività fuori dai diktat di regime. O meglio, un cinema di vera propaganda è esistito, ma si tratta di uno spirito talmente endemico alla produzione dell’epoca che finisce per condizionare più o meno ogni film confezionato in quei decenni. Per contro, dietro a questa rozza generalizzazione, si nascondono spesso opere impregnate sì di quell’ideologia, che però è filtrata da uno sguardo disilluso e malinconico, anche pateticamente umanitario nei confronti dei personaggi. Un bagno di (relativa) realtà per slogan e attitudini altisonanti. Cavalleria di Goffredo Alessandrini, recuperato in dvd da Medusa dallo scorso 26 settembre, appartiene a questa tendenza. Per il cinema di Alessandrini precedente al 1945 si è spesso detto che anticipa e preannuncia ispirazioni neorealistiche. Merito, del resto, che viene attribuito a molti autori a cavallo della guerra (Blasetti, Soldati, Bonnard, i primi Rossellini e De Sica…) tanto che alla fine è lecito chiedersi quanto il neorealismo sia stato frutto di un’evoluzione storica in continuità piuttosto che di una violenta rottura ad annullamento del passato.

In Cavalleria ritroviamo, sul piano dei meri contenuti narrativi, tutti i crismi del “dramma di regime”: l’esaltazione delle virtù militari, l’onore del soldato a rischio per l’amore di una donna, il conflitto tra virtù e sensualità, il paternalismo e la rinuncia. Ma innanzitutto è fuori dalle convenzioni l’atteggiamento verso il profilmico: lunghe sequenze in esterni su luoghi reali, e interni che non sembrano mai rigidi teatri di posa. Poi, a fronte di una grammatica molto classica (anche se si sprecano gli “errori” di raccordo di movimento, dando luogo a un tripudio di scavalcamenti di campo), è inatteso l’atteggiamento emotivo riservato ai personaggi. Che sono certo soldati di altissimo rigore ed eleganti signorine aristocratiche (il tutto è ambientato a inizio Novecento, forse per quel consueto “spostamento di realtà” che il fascismo pretendeva dal cinema, anche in funzione di exemplum e giustificazione storica), ma osservati con sguardo cauto e disincantato. Il melodramma è tenuto a briglia corta, si evitano le scene madri, e a poco a poco emerge anzi un certo sentimento cechoviano negli incontri fugaci tra i potenziali amanti Amedeo Nazzari ed Elisa Cegani, divisi da ragioni di casta. In tal senso si possono avvertire sottotraccia polemiche di regime contro il classismo degli aristocratici. Benché il regime raccogliesse anche il sostegno dei cascami dell’aristocrazia, in fondo la rivoluzione fascista fu medio-borghese. Ma l’atteggiamento di Alessandrini è assai meno retorico di quanto ci si potrebbe aspettare. La vita militare è fatta di tempi lunghi e noiosi (vedi le lunghe sequenze di esercitazione, governate con un imprevedibile senso di realismo quotidiano), e solo il cameratismo può fare da sostegno. Il destino di un soldato, pare voler dire Alessandrini, è fatto di noia e dedizione, con poche speranze di un amore e buone probabilità di morte sul campo. Da un film probabilmente nato anche con intenti di proselitismo militare, forse Mussolini si sarebbe aspettato qualcosa di più.