Parola al Cinema

30/10/09 - L’animazione americana di ultima generazione, potremmo dire da “Toy Story” in poi, sta...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Up”: convenzioni narrative e fantasie giapponesi

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def30/10/09 – L’animazione americana di ultima generazione, potremmo dire da “Toy Story” in poi, sta acquistando sempre più una sua precisa codificazione, non solo narrativa. Si tratta di un processo che si è svolto di pari passo all’affinamento della tecnica digitale, e che si è dato come scopo il definitivo sdoganamento del cinema d’animazione dalla destinazione per l’infanzia. Pian piano il pixel si è trasformato in un inaspettato (almeno agli inizi) territorio di scatenata sperimentazione diegetica, un crogiolo di incroci narrativi, citazioni, accostamenti postmoderni, cinema che rievoca altro cinema, grottesche iperboli e un vago cinismo comico inteso (talvolta frainteso) come chiave per accedere ai gusti del pubblico adulto. Sarebbe ridicolo dire che “Up” è il risultato più compiuto di anni di sperimentazione: puntualmente si sente ripetere questo ritornello a ogni nuova opera d’animazione americana, almeno fino all’uscita della successiva, ancor più strabiliante e audace. Trattandosi di un territorio creativo praticamente sconfinato, l’animazione, specie quella americana, è destinata a superare se stessa in eterno. Più interessante, semmai, è ravvisare in “Up” una serie di strutture narrative che ormai sorreggono e identificano il genere, che da marchi di fabbrica si stanno trasformando in luoghi comuni (anche perché negli ultimi anni si produce una quantità esorbitante di film animati: son lontani i tempi in cui Walt Disney ci metteva anni a terminare un’opera…), e che forse iniziano a marcare una certa stanchezza. Siamo nell’ambito del meraviglioso, ma definito secondo coordinate ben precise, mai tradite o sconfessate. Non è più cinema per soli bambini, ma è cinema, comunque, che stuzzica l’infantilità degli adulti, e che tiene fuori da sé tutto ciò che è scomodo, provocatorio o perturbante. Ciò non vale per tutta l’animazione attuale: i giapponesi, e anche altra animazione occidentale (vedi “Coraline e la porta magica”), osano molto di più. Il prodotto americano di largo consumo, invece, non sfida mai gli steccati che l’industria gli mette intorno.

Innanzitutto, a sorreggere l’impalcatura del film, anche in contesti narrativi più realistici, resta sempre la struttura classica della fiaba, spesso ironicamente dissacrata. Anche in “Up” c’è l’eroe, l’aiutante, il secondo aiutante, l’antagonista coi suoi aiutanti, la upposta in gioco (il gallinaceo da difendere), e, inconfondibile marchio d’animazione degli ultimi anni, una struttura a suo modo picaresca, con un’ampia pagina centrale di grande avventura, concitata ed emozionante, in cui si sospende la narrazione per il gusto della pura azione. Tutti i maggiori animati degli ultimi quindici anni parlano spesso di un viaggio, per le ragioni più svariate, sempre fitto di pericoli e spesso formativo. La consueta ironia stavolta è data dal rovesciamento dei canoni della fiaba; l’eroe non è giovane e bello, ma un vecchietto a cui vogliono portar via la casa, uno degli aiutanti è un cane “modificato” e parlante, lo stesso antieroe è un altro artritico vecchietto… Giochetti a cui la Pixar, e non solo, basti pensare a “Shrek”, ci ha abituati da anni. Anche l’aiutante rompiscatole e pasticcione, in “Up” un bambino cicciottello, è un must, e il più popolare degli esempi è Sid de “L’era glaciale”. Più in generale, la linea ricorrente della nuova animazione americana pare un’insistita elegia del diverso, talvolta sdolcinata, qua e là stucchevole, in ogni caso estremamente ecumenica e per questo ricompensata da puntuali incassi stratosferici.

“Up” segue tali linee narrative in modo piuttosto pedestre e convenzionale. Le novità più eclatanti, al contrario, si trovano nell’immaginario di riferimento a cui i suoi autori sembrano rimandare. Al di là della facile poesia su terza età e immortalità del passato, e dei facili piagnucolii sulla brutalità del presente (vedi gli speculatori edilizi che vogliono espropriare il protagonista), tira un’aria “molto giapponese”, nel bene e nel male. Lo stesso rifiuto della modernità è un tratto ricorrente nell’animazione giapponese, e stavolta le peripezie avventurose prendono forma secondo bizzarre commistioni, anche genetiche, che ricordano paradossalmente molte ispirazioni post-atomiche di marca nipponica. Cani parlanti “modificati”, avventure per buona parte sospese in aria, tra dirigibili e case volanti. Probabilmente l’ambientazione aerea è stata anche una scelta funzionale alla fruizione tridimensionale, per aumentare la vertigine e la partecipazione del pubblico. Ma qua e là si avverte l’aria di certi vecchi anime a puntate, come “Conan ragazzo del futuro” e i mille simpatici vecchietti che animavano quelle avventure da coprotagonisti. Un’ultima nota sul 3D: stavolta non è un valore aggiunto, non toglie né aggiunge nulla, e non ha precise funzionalità narrative. Oltretutto, pare poco sfruttato anche come strumento di partecipazione emotiva. Simpatico, ma non meraviglioso.