Perfidia

Per avere una fotografia della crisi italiana, non bisogna guardare ai mercati ma alla nostra provincia. E’ quello che fanno film come Perfidia, piccoli progetti coltivati fuori dai soliti recinti produttivi e avulsi da logiche cristallizzate in un’immagine del Paese certamente più appetibile, ma edulcorata e consolatoria.
Ambientato a Sassari e interpretato da un gruppo di attori locali, Perfidia racconta il cul-de-sac di una generazione, quella dei trentenni a cui lo stesso Angius appartiene: il protagonista, Angelo (perfetto Stefano Deffenu) è un classe ’78, non ha un lavoro né desiderio di cercarsene uno. Che lavoro poi? Orfano di madre, vive col padre (l’ottimo Mario Olivieri), un uomo all’antica convinto ancora che bastino conoscenze o frequentazioni politiche ad assicurare un futuro al figlio. Quest’ultimo asseconda il padre più per apatia che per convinzione, continuando a dividersi tra il proprio letto e uno squallido bar, ritrovo di amici non più giovani e già abbondantemente falliti come lui. Poi però si invaghisce di una studentessa mentre il padre ha un malore. Nella vita-non vita di Angelo potrebbe esserci una svolta.
Il 32enne Bonifacio Angius, che si era messo in luce tre anni fa con il mediometraggio saGràscia (Premio della Giuria al Religion Today Film Festival 2011), debutta stavolta nel lungometraggio con un’opera già presentata a Locarno – dove ha vinto il Premio Giuria Giovani – e ad Annecy Cinema Italien – Menzione Speciale della Giuria.
Perfidia gronda angoscia dall’inizio alla fine, immerso in “parole vuote ma doppiate”, interazioni non dialogiche, ambienti ocra e senza palpiti e nella luce spettrale di un sole al neon (la fotografia è di Pau Castejon Ubeda).
Un film mefitico, visivamente disadorno, volutamente sfilacciato e iterativo, con un paio di momenti onirici niente male e improvvise iniezioni di ironia qua e là. Dichiarati i debiti con il cinema del disagio, a partire dal Taxi Driver scorsesiano, da cui mutua situazioni e dinamiche psicologiche del personaggio, come nell’attenzione malsana che Angelo mostra per l’amico “normale” – l’unico con una moglie, un lavoro e una bella macchina – e nelle difficoltà relazionali evidenziate con la giovane donna di cui s’invaghisce (cui chiede di sposarlo al primo appuntamento, mostrando un’inadeguatezza simile a quella di Travis/De Niro quando porta la sua Betsy a un cinema a luci rosse).
A differenza di Travis, Angelo però ha uno sguardo più neutro, senza profondità, è una specie di mite sociopatico, incapace di una qualsivoglia forma di eversione che non sia anche un patologico distacco dalla realtà. Perciò ogni paragone con I pugni in tasca di Bellocchio non ha alcun senso (e il regista stesso lo rifiuta): i tempi sono cambiati, il ribellismo di allora è oggi malessere senza forma né contenuto.

Gianluca Arnone per cinematografo.it