Roma-Extra: solo un inizio

08/11/10 - La sezione curata da Mario Sesti continua a mostrare un buon livello complessivo. Anche se...

La sezione curata da Mario Sesti continua a mostrare un buon livello complessivo

(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)

08/11/10 – Al 5° festival internazionale del film di Roma continua ad essere di buon livello il Concorso della sezione L’altro cinema | Extra, anche se stavolta il giudizio è frutto di una media tre i film presentati. Mother of Rock: Lillian Roxon di Paul Clarke e Rainmakers (De Regenmakers) di Floris-Jan van Luyn, ad esempio, sono documentari sostanzialmente mediocri che si limitano ad esporre scolasticamente i loro contenuti, senza formulare particolari riflessioni di messa in scena e privi di interesse nelle soluzioni narrative e metodologiche.

In Mother of Rock viene raccontata la biografia dell’australiana Lillian Roxon che, trapiantata a New York come giornalista di costume, fu tra i primi esponenti del mondo dei media a cogliere le potenzialità (artistiche, culturali e stylish) del panorama musicale underground di New York, da Lou Reed a David Bowie, e fu persino una antesignana dello studio della musica rock, visto che pubblicò la prima enciclopedia sull’argomento. Rainmakers, vincitore del premio come miglior documentario, è invece la messa in discorso del problema dell’inquinamento in Cina senza riuscire ad andare al di là di un vago impegno sociale. Che poi l’autore, l’olandese Floris-Jan van Luyn sia un apprezzato sinologo non lo si mette certo in dubbio, ma non si capisce perché abbia deciso di girare questo film, in qualche modo perseguendo la non troppo stimabile politica dell’orientalismo, quando con questo vi si intende uno sguardo in qualche modo di superiorità rispetto a ciò che si documenta. Insomma, si ha l’idea che van Luyn abbia l’atteggiamento dell’antropologo classico (quello che era in accordi diretti con l’imperialismo, anche se a volte non consapevolmente) e che condannando l’inquinamento in Cina non voglia far altro che condannarne l’industrializzazione dal volto inumano, come se quella occidentale si possa dire migliore (basta vedere Gasland, sempre in Extra, per convincersene). Questo lavoro, al di là dell’urgenza innegabile del tema, non andava fatto da un olandese quanto da un cinese. Per fortuna di fronte a due film meramente illustrativi e divulgativi come Mother of Rock: Lillian Roxon e Rainmakers vi sono anche documentario d’eccellenza quali Ce n’est qu’un debut di Jean-Pierre Pozzi e Pierre Barougier, dove si racconta la storia del rapporto tra un’insegnante incinta e una piccola scolaresca di bambini di due-tre anni, cui la donna insegna a ragionare, a riflettere, a studiare il proprio io e il rapporto con l’Altro. Un lavoro scolastico eccezionale che ci mostra quanto sia avanzato lo stato della scuola francese (almeno in certe eccellenze) e che soprattutto, da Cartesio a Montaigne passando per l’illuminismo, pare essere un distillato della cultura filosofica d’oltralpe. Evidentemente l’insegnante non fa ai bambini i nomi dei filosofi ma, grazie alla sua capacità, sono quegli insegnamenti che passano fino ad essere acquisiti nelle loro menti e nelle loro pratiche. Ce n’est qu’un debut ci ricorda allora, tra le altre cose, che la filosofia è un campo del sapere essenziale ad ogni essere umano, non tanto come conoscenza intellettuale quanto piuttosto come pratica del vivere. Questo film perciò va fatto rientrare a pieno titolo nella straordinaria galleria di ritratti in ambito scolastico che formano una sorta di colonna interna al cinema francese, da Jean Vigo a Entre les murs di Laurent Cantet.

Purtroppo, al contrario di quel che è accaduto nel Concorso ufficiale in cui ha vinto meritatamente Kill Me Please, in Extra aha sorpreso negativamente la vittoria andata a Rainmakers, quando c’erano almeno cinque o sei titoli superiori all’interno della selezione: oltre a Ce n’est qu’un debut, senz’altro Facing Genocide: Khieu Samphan and Pol Pot di David Aronowitsch e Staffan Lindberg. Non si tratta, sia chiaro, di un lavoro che esula dal documentario d’inchiesta e d’intervista e dunque dal limitato approccio di natura estetica e discorsiva; però nonostante ciò Facing Genocide solleva almeno un dubbio si direbbe quasi ontologico sull’arte del documentario. Questo avviene in qualche modo per necessità: costretti dall’ambiguità del loro protagonista e cioè di Khieu Samphan, auto-definitosi ombra di Pol Pot (a oggi considerato uno dei più sanguinari dittatori del Novecento) ma allo stesso tempo dichiaratosi innocente per i fatti di cui viene accusato e cioè del non aver contrastato il genocidio avvenuto in Cambogia quando lui era ai vertici del potere, i registi si trovano di fronte un nodo ben difficile da sciogliere, quello dell’incapacità di poter fare del “cinema del reale”, cioè di poter documentare esattamente quanto hanno scelto di mostrare. Alla fine del film la figura di Khieu Samphan resta irrisolta e con essa le risposte che Facing Genocide aveva cercato di dare. Ecco che allora l’ambiguità di un essere umano può farsi discorso ontologico della pratica documentaria, l’impossibilità di arrivare a un punto fermo, di mettere a fuoco.

Tra i film fuori concorso sono parsi di un certo interesse infine Proie di Antoine Blossier, -X- di Hajime Izuki e Le sentiment de la chair di Roberto Garzelli. In realtà i primi due si vanno ad inquadrare con relativa esattezza (e con qualche stanchezza) all’interno delle due tradizioni cinematografiche cui afferiscono, la francese e la giapponese. Proie è un horror che conferma il buon momento del cinema d’oltralpe in questo campo e, pur non raggiungendo gli apici di un Martyrs, si dimostra un discreto prodotto di genere, con una scrittura semplice e immediata e con una trovata degna di nota, l’idea che il male sia per una volta rappresentato da cinghialoni diventati cannibali per aver trangugiato dell’acqua inquinata. Il gioco del fuori campo per cui i protagonisti trasecolano al sentire un pauroso grugnire è un qualcosa che si farà ricordare quantomeno con un certo sorriso. -X-, dal canto suo, è un film giapponese abbastanza classico, forse un po’ debole sul piano della messa in scena, decisamente troppo pauperistica, ma convincente nel gioco sui mezzi toni fra leggera demenzialità e dramma sussurrato. Il più convincente tra i film del trio è stato allora Le sentiment de la chair, film francese girato da un toscanaccio come Roberto Garzelli (che ha lavorato con Ferreri). Il tema dell’esplorazione ossessiva della sessualità fino ad arrivare alla perversione della penetrazione può anche non essere nuovo, ma viene messo in scena con una indiscussa sicurezza nei mezzi e nella capacità di condurre il proprio discorso con estrema coerenza. Giocando tra radiografie mediche e disegni anatomici, Garzelli unisce scienza e arte direzionandole entrambe nell’ossessione dello sguardo, secondo la vecchia legge (o presunzione) occidentale che fa coincidere la vista con la conoscenza. Altamente teorico, Le sentiment de la chair è però anche la commovente storia di un amor fou incapace di frenarsi, di trovarsi dei limiti ed è dunque un ottimo aggiornamento di un tema tipicamente francese, tanto che in più di un momento è venuto in mente il tardo capolavoro di Truffaut La signora della porta accanto.