Parola al cinema

20/11/09 - Sebbene, tra i suoi principali marchi di fabbrica, il cinema di Almodovar si mostri nel suo insieme...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“Gli abbracci spezzati”: Almodovar e il suo consueto gioco di generi cinematografici, in preda a inaspettate confusioni

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def20/11/09 – Sebbene il cinema di Almodovar si mostri nel suo insieme come un unico, appassionato e insistito canto alla vita, le sue opere non hanno mai affondato le proprie radici nel realismo, ma hanno sempre tratto linfa direttamente dal cinema stesso, e, in termini narrativi, hanno ricavato i propri nuclei da una realtà di riferimento già falsa, già rielaborata, “modellizzata”, “di secondo livello”. Almodovar è un esteta, talvolta un manierista, proprio per la sua reiterata riflessione e destrutturazione dello stesso linguaggio cinematografico, sia da un punto di vista tecnico-formale sia strettamente narrativo, senza mai distaccarsi dai generi popolari. Nelle sue opere giovanili l’arma di destrutturazione era sostanzialmente il grottesco aggressivo; nelle sue opere mature e finora migliori (“Il fiore del mio segreto”, “Parla con lei”, e con qualche riserva “Tutto su mia madre”) la destrutturazione si accompagnava a un cinema sanamente popolare e ricco d’emozioni, pervenendo a una perfetta fusione tra meta-cinema e coinvolgimento del pubblico. Negli ultimi anni, invece, la sua riflessione metafilmica (e, per la nostra analisi, metanarrativa) si è fatta sempre più pressante, più claustrofobica e respingente. “La mala educaciòn” ne è stato l’esempio più irritante.

Con “Gli abbracci spezzati”, Almodovar tenta di nuovo la fusione di generi popolari e riflessione intellettuale, ma stavolta, inaspettatamente, l’autore appare assai meno consapevole delle “regole del gioco”. Siamo di fronte a un ennesimo melodramma noir, tutto avvitato intorno al cinema e alle sue figure produttive. Il melodramma radica la propria ragion d’essere nell’incapacità dei personaggi di comunicarsi, di capirsi, e in tal senso è azzeccata la scelta di identificare il nodo melodrammatico nell’impossibilità di parlarsi tramite le immagini (il regista è cieco, il produttore ha bisogno di una lettrice delle labbra per interpretare il girato muto). La costruzione, come ormai è solito in Almodovar, è per misteri e a scatole cinesi; piani temporali alternati, punti di vista interscambiabili, e un passato misterioso, che viene svelato a poco a poco, a cui tutti i personaggi sono indissolubilmente legati. Tutta la prima parte di rievocazione del passato mette in scena un melodramma davvero avvincente, la costruzione narrativa è perfetta, la cupezza dei sentimenti messi in gioco rammenta grandi classici americani anni 50 e 60 senza farli rimpiangere. Il triangolo amoroso, un interesse comune che intorbida i rapporti, un impedimento fisico che complica la realizzazione di una vera felicità: tòpoi di genere rinnovati con polso fermo. Grande melodramma, fiero, solido e nemmeno troppo compiaciuto.

Almodovar, però, “sbaglia” in tutta la parte finale, e precisamente nel disconoscere le stesse regole del genere da lui prediletto. Il melodramma, in soldoni gli abbracci spezzati(ma belli grandi, sia chiaro), può essere suddiviso tra “melodramma fatale” e “melodramma tragico”: nel primo caso, è il destino, elemento esterno ai personaggi, che impedisce la felicità dei protagonisti. Nel secondo, è l’intreccio tra i personaggi che determina la sciagura, sono le loro precise scelte che conducono la catena narrativa verso un drammatico finale. In “Gli abbracci spezzati” Almodovar allestisce un cristallino “melodramma tragico”, dove le scelte dei tre protagonisti (tradimento, conflitto, vendetta) danno il via al dramma, ma poi sceglie un’infelice, stonata e affrettata risoluzione da “melodramma fatale”. La più facile di tutte: un incidente d’auto, che non scaturisce da responsabilità dei personaggi. Almodovar non è “impazzito”, è un divoratore di cinema classico e conosce bene i materiali coi quali lavora. Purtroppo stavolta la spinta alla riflessione metanarrativa gli ha giocato un brutto scherzo. Perché l’incidente non è lì per caso; oltre a essere una pura citazione (“Il disprezzo”) gli serve da occasione per sviluppare in tutta la parte finale (la meno riuscita) una riflessione su responsabilità ed espiazione. Il protagonista, sul finale, ha bisogno di dare un nome all’incidente, di identificarne la causa, di trovare un volto a cui attribuire il proprio dolore e senso di colpa. Stesso processo a cui va incontro il personaggio di Judith, che, con improvviso squilibrio narrativo, si delinea protagonista dello scioglimento. Tutti pronti, nell’ultima mezz’ora, a snocciolare con pedanteria e un certo didascalismo dolori e responsabilità del vivere e del fare cinema, che per Almodovar, si sa, coincidono.

Almodovar è un generoso, e il suo cinema, ogni volta, trabocca. Ma, a differenza di altre sue opere in cui ricerca metalinguistica e piacere filmico si compenetravano, ed era la stessa narrazione a recare in sé la propria autoriflessione, stavolta le due componenti marciano ognuna per conto proprio, producono interferenze, s’infastidiscono, e il gioco vien fuori con troppa evidenza. Grande entusiasmo come sempre, ma scarso equilibrio.

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