White Deer Plain

15/02/12 - Nel film di Wang Quan'an, habitué del concorso di Berlino, un villaggio è combattuto tra il nascente comunismo e il rispetto delle tradizioni.

Dalla nostra inviata Daria Pomponio

Torna in Concorso alla Berlinale 2012 Wang Quan’an, vincitore della kermesse nel 2007 con Il matrimonio di Tuya e dell’Orso d’argento per la sceneggiatura nel 2010 con Apart Together. Questa volta, in White Deer Plain, il regista cinese approccia il kolossal storico, imbastendo un’epopea contadina agitata dalla fine dell’impero e dall’ascesa del partito comunista. La popolazione della fertile terra di White Deer Plain vive infatti di agricoltura in una distesa dorata di grano. Le tasse da pagare all’impertore sono però assai esose e rischiano di mettere a repentaglio il benessere economico di tutti. All’interno della comunità ci sono due famiglie: i Bai e i Lu. Il capoclan, Bai Jiaxuan (Zhang Fengyi) è un uomo all’apparenza retto, ma severo, che sostiene i valori degli antenati e protegge il tempio a loro dedicato. Il suo fedele servitore Lu San (Wei Liu) e suo figlio Heiwa (Duan Yi Hong) sono per il capo come dei parenti. La fine dell’impero e il conseguente avvento della repubblica sono destinati però a cambiare tutto. Heiwa, spirito ribelle, decide di andare a raccogliere il grano altrove, per liberarsi dalla presenza oppressiva del padre, ma si innamora di Xiao’e (Zhang Yu Qi), giovane moglie del proprietario terriero e la porta con sé al villaggio. Il capoclan rifiuta però di sposarli secondo il rito degli antenati e i due dovranno vivere ai margini della contea. La rivoluzione è in corso e la coppia clandestina partecipa ai movimenti del partito comunista. Quando poi la sommossa subisce un grave battuta d’arresto, Heiwa è costretto a fuggire abbandonando la moglie, che diventa facile preda di calunnie, violenze e vili giochi di potere. In una società che non riesce a rinunciare ai propri riti ancestrali né alle superstizioni, Xiao’e è una strega dai poteri malvagi, da umiliare e bruciare.

Nonostante le splendide riprese, spesso in controluce e dai toni dorati, esaltino la vita contadina nei suoi aspetti più puri, il regista, in ossequio ai dettami della Repubblica Popolare si scaglia violentemente contro questo mondo pre-rivoiluzionario fatto di gretti approfittatori dalle credenze obsolete quando non apertamente criminali. L’unico personaggio ad avere ben chiara la necessità del cambiamento è il protagonista Heiwa, che è due volte rivoluzionario: prima contravviene alla morale comune andando a vivere con un’adultera, poi entra nel partito ed esorta i compaesani alla distruzione del tempio. La donna “straniera” e “peccatrice” è invece per l’autore lo strumento fondamentale, a causa delle violenze cui viene sottoposta, perché si venga persuasi della necessità di abbattere questo mondo contadino. Poco però ci viene detto del nascente comunismo e non vediamo quasi nulla della lotta messa in atto da Heiwa una volta partito. La durata fluviale della pellicola (188 minuti) e la struttura bipartita (dopo la fuga di Heiwa la protagonista diventa Xiao’e) rendono inoltre questo affresco storico poco incisivo e ambiguo. Rispetto al film precedente, Apart Together, in gran parte ambientato in epoca contemporanea, Wang Quan’an sembra aver perso la sua lucidità di sguardo e si ha l’impressione che la storia di questo suo nuovo film gli sia sfuggita di mano. Dall’epica western dell’inizio, si approda infatti a un melò a forti tinte, mentre il nascente comunismo è senz altro buono e giusto, ma è tenuto fuori dai margini dell’inquadratura, forse perché deve ancora arrivare, almeno a White Deer Plain.

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