Blood Ties

Anziché omaggiare come vorrebbe il poliziesco americano anni ’70 Blood Ties ce ne restituisce un’immagine confusa e sbiadita.

L’immaginario vintage del poliziesco americano anni ’70 con il suo stile ruvido e l’ammaliante soft focus è oggetto già da qualche anno di un interessante revival. Tra gli altri ci ha provato Ridley Scott con il suo elegante ma algido manierismo nel 2007 con American Gangster mentre nello stesso anno David Fincher con Zodiac ha realizzato una pellicola visivamente potente e dal ricco portato teorico. Il caso vuole che mentre il nostro Michele Placido si reca oltralpe per realizzare con Il cecchino un classico polar francese, il regista e interprete francese Guillaume Canet sbarca oltreoceano con l’ambizioso obiettivo di realizzare “il poliziesco definitivo”. Summa di gran parte delle pellicole del genere Blood Ties, presentato fuori concorso al Festival di Cannes  mescola melodramma familiare e crime movie come è nella migliore tradizione del cinema di James Gray che ne firma la sceneggiatura, basandosi sull’originale francese Liens du sang di Jacques Maillot, che vedeva  nel cast proprio Canet.
Protagonista qui è uno stropicciatissimo Clive Owen nei panni Chris, un ex criminale che, appena uscito di prigione, viene ospitato e aiutato dal fratello poliziotto (Billy Cudrup) a rifarsi una vita e riallacciare i suoi legami di sangue. Ma il tentativo di Chris non andrà a buon fine e il suo ritorno all’attività criminale metterà entrambi i fratelli nella scomoda posizione di dover decidere tra la famiglia e il proprio mestiere, l’integrità etica e la giustizia fai da te. Nonostante il plot lineare e ultraclassico, la storia dei due fratelli e dei familiari che li circondano svanisce presto tra le maglie larghe di una narrazione sfilacciatissima, principale responsabile della durata eccessiva di 144 minuti. Evidentemente l’autore dell’interessante Non dirlo a nessuno è però più a suo agio con tempi rarefatti della suspense che non con il ritmo delle scene d’azione. Si veda il corpo a corpo tra i due fratelli in casa, risolto con i due attori che semplicemente rotolano sul letto oppure quell’inseguimento ripreso con panoramiche orizzontali monodirezionali e dall’alto, come se le auto si stessero disponendo in fila verso un lungo ingorgo. Molte situazioni di tensione vengono buttate là e mai più recuperate come la questione riguardante la madre dei due protagonisti e, soprattutto, gran parte delle scene è risolta con un sotterfugio poco elegante: si alza la musica e si passa oltre. Come avviene in una scena che vede confrontarsi Zoe Saldana e Billy Cudrup nei panni rispettivamente della compagna di un criminale e del poliziotto che l’ha sbattuto in prigione. Il loro incontro nel bar dovrebbe porre in luce affinità e divergenze tra i personaggi, ma Canet, esce all’esterno, li lascia blaterare inascoltati dietro una vetrata, mette su un 33 giri e alza il dolly. Suona come una presa in giro – e forse lo è – la presenza di un unico flashback, mero strumento per introdurre una trovata che ricomparirà nel finale. Brillano sulla scena soltanto Cliwe Owen e James Caan, irresistibili specie nei duetti, mentre il resto del cast stellare con Cudrup, Saldana, Mila Kunis e persino la solitamente brava Marion Cotillard, pare alquanto imbalsamato alle prese con ruoli e situazioni improbabili o, peggio, assai prevedibili. Per fare un esempio di questa prevedibilità basti pensare che la Cotillard, scacciata dall’ex marito e nei guai con il suo business di prostituzione si concede una dose di eroina sulle note, ca va sans dire di Heroine dei Velvet Underground. Nonostante tutte le buone intenzioni del regista, gli ottimi interpreti e ogni bene produttivo a disposizione, Canet sbaglia dunque il tiro e non riuscendo realmente omaggiare il cinema che ama ce ne restituisce soltanto un’immagine stinta e compassata.

DARIA POMPONIO