Due lettere anonime

Due lettere anonime (1945) di Mario Camerini: esempio di "neorealismo industriale", contaminazione tra cinema resistenziale e cinema di genere. In dvd per CristaldiFilm dal 20 novembre.

Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni

italian graffitiIl “neorealismo industriale”, quello che prenderà il sopravvento intorno agli anni ’50 col proliferare di riletture popolari, neorealismo rosa compreso, è esistito in una certa misura anche negli anni stessi dell’esplosione del cinema di Rossellini, De Sica, Visconti, De Santis… In pratica, accanto alla ricerca su forme d’espressione nuove e scardinanti, avviene una sorta di ricollocazione in tempo reale di autori precedentemente legati ad altri canoni. Un’exploitation massiva, messa in atto da un’industria che segue i rivolgimenti del mercato, i suoi mutamenti di gusto e anche le sue novità estetico-ideologiche, e chi prima era “lontano”, con atteggiamento professionale, si riallinea. Tra gli autori del cinema di epoca fascista, Mario Camerini è stato riconosciuto, per alcune sue opere, come uno dei predecessori del neorealismo, e in qualche misura può essere interpretato come il mestierante buono per tutte le stagioni. Ha costeggiato, con esiti sempre dignitosi, praticamente tutto il cinema italiano fino agli anni ’60, tenendo sempre un occhio vigile sui gusti del momento. Melodramma, commedia mondana, telefoni bianchi, cappa-e-spada, commedia all’italiana, peplum, commedia in costume… E’ curioso, in tal senso, riscoprire un film come il suo Due lettere anonime, in cui sono le nuove tendenze del “cinema di guerra” a essere interpretate come materia industriale a cui aderire per restare sul mercato.

Riproposto in dvd per CristaldiFilm dal 20 novembre, il film di Camerini riserva il ruolo di protagonista, quasi con gesto simbolico, a Clara Calamai, diva dei telefoni bianchi e poi prima icona femminile del rinnovato cinema italiano con la sua partecipazione a Ossessione (1943) di Luchino Visconti. Il carattere spurio dell’opera è ben evidente dalla contaminazione dello spirito prettamente commerciale di Camerini con nuovi ambienti e nuove storie. Ovvero, il melodramma, il triangolo amoroso e il noir sono incastonati nelle peripezie di una tipografia romana in cui confluiscono il controllo dei nazisti e partigiani sotto mentite spoglie. I tempi di guerra e Resistenza, oltretutto, si prestano bene a una rilettura serrata e intrigante, da film di genere, tutta basata sull’intreccio e l’ambiguità dei rapporti umani. Certo, sparisce totalmente l’afflato ideologico, o meglio la giustezza della guerra di Resistenza è assunta come premessa narrativa, un’occasione come un’altra per dare una reale motivazione ai “buoni” del film. Camerini, insomma, crede meno in ciò che racconta, e crede di più nell’intrattenere il suo pubblico cercando sempre e comunque una facile identificazione. Si nota in particolare nello scioglimento del film. Se per tre quarti il racconto si conserva a suo modo credibile, nel finale il triangolo amoroso si risolve con toni e accenti da noir americano anni ’40, per poi svoltare bruscamente in una lacrimosa sequenza finale da eroina angelicata in stile-Matarazzo. Un patchwork di stili, come già era accaduto a Camerini in Rotaie (1931) secondo linee estetiche completamente diverse. Forse è questa una delle chiavi per capire il suo cinema: un’estrema poliedricità, elastica e pronta alle scosse del mercato. In qualche modo, è anche un’incarnazione veritiera di tanta nostra produzione industriale, che spesso ha amato fare cinema “alla maniera di…”.